Sabato 9 ottobre 2004





E' dall'anno scorso che non mangiamo trippe. Fino ad una trentina di anni fa i trippai erano molto presenti nella topografia gastronomica urbana. Oggi sono rari; i sopravvissuti campano vendendo specialmente scatolame per animali domestici. Nel nostro gruppo la zuppa di trippe - "sbira" - non è egualmente amata. Forse perché a più d'uno ricorda economie sofferenti. Anche per questo oggi, a Valleregia, il giro degli antipasti ha avuto un successo strepitoso. Ma i cultori della trippa, anche se discreti, non nascondono di sentirsi parte d'una élite. Solo una aristocrazia del palato non si lascia intimidire da un cibo un tempo confinato alla mensa dei poveri. A questa aristocrazia appartiene Peverelli.
Non è il suo unico segno di distinzione. Peverelli ha gesti urbani, non alza mai la voce e porta i capelli alla Lancillotto; un caschetto, bianchissimo, serico. Sino a pochi anni fa erano biondi. Sempre con la stessa pettinatura - dalla nascita, dice - scelta dalla madre. Non l'ho mai visto ravviarli; a volte li scuote con un movimento aggraziato ma senza particolare intenzione. Peverelli è un mite: ha occhi chiari e un sorriso benevolo. Appartiene al nucleo gregari; non è uno di prima fila anche se non perde una parola: partecipa alla discussione annuendo o aggrottando la fronte ma interviene raramente. Peverelli è nome d'arte. Sembra che gli sia stato affibbiato parecchi anni fa dopo che era stato visto con in mano un libro di Luciana Peverelli. Nessuno in fabbrica conosceva la celebre autrice di romanzi rosa degli anni Trenta ma la copertina, allusiva al genere, era stata sufficiente per farne un caso. Lui aveva detto che lo doveva portare alla madre ma ormai era fatta e da quel giorno era diventato Peverelli, anzi "u Peverelli", e tanti in fabbrica credono che sia il suo vero nome.
Peverelli andrà in pensione alla fine di gennaio del 2005. Altri più giovani di lui ci sono già. E' perché si sono avvalsi di benefici inventati dalla politica per meglio gestire le ristrutturazioni specie delle grandi aziende. Benefici che pur muovendo da valide ragioni sono stati spesso utilizzati in modo perverso. Raffe ad esempio, più giovane di Peverelli, è in pensione già da un anno perché "ha preso l'amianto", l'abbuono di 5 anni concesso a chi ha lavorato in situazioni esposte. "Cu u belin che me l'avievan detu se nu fisse che nu ghe servivu ciù", commenta. Gli altri sono d'accordo: nel reparto di Raffe l'amianto neppure lo vedevano da lontano.
"Aspetto ancora qualche giorno - mi dice Peverelli abbassando la voce - poi gli pianto una mutua, ma di quelle... che arrivo diritto alla pensione". Come il primo giorno di lavoro anche il finale di partita è personale, individuale. Ma in quest'ultimo l'operaio, potendo, ci mette del suo, o almeno ci prova. I giorni di mutua che riuscirà a furare sono pochi: Peverelli li considera, oltre che un modesto risarcimento di una vita spesa al servizio dell'azienda, anche uno sberleffo. Come dire "ecco, ora vi faccio vedere chi sono".
Tutti sanno che lui sta per lasciare. Soliti sfottimenti: se è vero che si è già impegnato la liquidazione, che si è trovato un nuovo lavoro in nero per paura di non saper cosa fare, che ha assunto una badante per farsi assistere nei suoi ultimi anni, che l'azienda gli ha offerto di assumerlo come dirigente perché essendo sempre stato taciturno si erano convinti che fosse anche intelligente... Lui incassa e sorride: si capisce che si diverte; non si offende. Alle spalle ha una storia singolare che da anni alimenta la sua presa in giro da parte dei compagni. Sono l'unico lì che non ne è a conoscenza e per questo mi racconta. E' successo una ventina di anni fa: è stato investito sul lato sinistro dall'onda d'urto, violenta e assordante di un grosso pezzo scivolato dall'alto di un imbrago. Poteva restarci invece è stato solo sfiorato. Così almeno gli è stato raccontato perché lui del fatto non ricorda nulla. Come non ricorda dei giorni successivi in cui, gli hanno detto, andava regolarmente a lavorare ma si comportava in un modo un po' strano fino a quando, ormai dopo una settimana, qualcuno se l'era data che c'era qualcosa che non funzionava e l'avevano ricoverato. Del fatto e dei giorni seguenti quando ancora si muoveva in fabbrica Peverelli non ricorda nulla - "anche se in seguito mi hanno portato da dei medici che hanno fatto dei tentativi". Poi, molto dopo, gli hanno confermato che era stato colpito da un "amnesia transitoria" una cosa che "lascia un vuoto, un buco di cui non sai niente".
Mi dice che i suoi compagni di lavoro lo avevano interrogato a lungo, "più dei medici". Li lasciava increduli che non ricordasse come dopo il fatto avesse lavorato per giorni e completato una bolla aperta da prima dell'incidente. Gli avevano perfino fatto vedere un pezzo che aveva tracciato due o tre giorni dopo la sberla ma lui niente, non ricordava e basta. Al suo ritorno in reparto lo avevano preso per un furbacchione che l'aveva montata per sfangarsi il lavoro: da lì una battuta via l'altra. La più comune era che in quei famosi giorni si era fatto prestare un sacco di soldi da tizio e caio e che ora doveva restituirli. "E io sai, un po' ci stavo perchè sapevo che era uno scherzo ma un po' mi agitava: questo buco una volta o l'altra si riempirà, mi dicevo. E invece è rimasto lì".
Il fatto accaduto a Peverelli - dimenticare un periodo della vita - richiama, tra i presenti, il caso opposto di un sardo, siderurgico della Siac, per anni figura centrale della commissione interna di quello stabilimento. "Era uno che ricordava tutto, ma proprio tutto: i nomi degli operai, le date delle riunioni, ma anche cose minime come i giorni di mutua dei reparti, i presenti a quella o quell'altra riunione. Bastava andare lì e dirgli: cosa ha detto l'ingegnere quella volta che avete discusso di quel problema - un fatto avvenuto magari 10 anni prima. O quanto era la trattenuta della mensa nel 1940? E lui tranquillo rispondeva; una enciclopedia. Così fino a più di novant'anni quando è morto, pochi anni fa: la memoria del secolo".
L'uomo che dimentica e quello che ricorda: i presenti ne parlano con tono compiaciuto. Quasi a sottolineare la singolarità della fabbrica, un luogo dove è possibile imbattersi in situazioni umanamente - anche clinicamente - eccezionali; un luogo dove, pur restandone all'interno, è possibile farsi una idea del mondo, della sua economia, della morale, persino della malattia.
Percepita come una realtà unica, la fabbrica, al momento in cui ognuno è venuto a parlarne, è diventata plurale. Stessi ingredienti, stesse parole ma le storie che vengono raccontate differiscono al punto che sembrano riferirsi a fabbriche diverse. Tanto è il peso della storia personale su ciò che ognuno ha vissuto e raccontato che solo raramente i punti di vista si sommano. Inevitabile che torni con forza la domanda: com'è possibile una rappresentazione unitaria - il "museo degli operai" - se persino gli oggetti, le stesse macchine sembrano cambiare segno a seconda del come e del quando, del carattere o dell'anagrafe di chi racconta?
Ne parliamo. Tanto per cominciare tutti riconoscono che le loro storie hanno in comune la fabbrica. E, anche se hanno età diverse, per tutti la fabbrica è stata e rimane il filtro attraverso il quale hanno osservato la realtà. "Per quelli della mia generazione, ha detto Ugo, la fabbrica è un posto che, anche se ti ci avessero chiuso dentro, potevi arrivare lo stesso a capire com'era il mondo". Egualmente comune a tutte le storie è anche un dato esistenziale che potrebbe chiamarsi la segregazione del produttore. La fabbrica è un luogo che volutamente la società tiene nascosto, separato dal resto del mondo. L'operaio riconosce nel mondo attorno i beni prodotti da lui; sa che sono pregiati. Ma al contrario di quello che capita ad esempio a un panettiere le cose che fa l'operaio sfuggono - almeno nella loro particolarità - agli occhi del mondo, finiscono in luoghi o in insiemi difficili da decifrare. Un terzo elemento che accomuna le diverse storie è sentire la fabbrica come un luogo di scontro permanente, strutturale. Col padrone, coi compagni di lavoro, col tempo, la logica, il buon senso, la stanchezza, i soldi e così via. Un sentimento "faticoso": lo scontro, la lotta comincia all'inizio di ogni giornata e non finisce neppure quando vai a letto la sera. Puoi fare tentativi di ignorare lo scontro o di aggirarlo ma la realtà della fabbrica non lo permette.
Oltre a questi c'è un altro punto, tra i presenti considerato più significativo degli altri - sui miei libri si chiama "la percezione di sé come classe" - di cui ha parlato Elio. "Intanto, quando sono arrivato in Ansaldo, sapevo che era la fabbrica dove aveva lavorato mio padre. U travaggiava lì, ti veddi? Mi ha detto uno dopo nemmeno un'ora che ero entrato. La fabbrica era il mio posto, quello della mia famiglia. Il quartiere dove abitavo era di case operaie. I negozi che ti davano la roba a credito sul libretto erano per operai. Io lavoravo da Ansaldo, ero un operaio e sentivo di appartenere alla classe degli operai, che aveva un unico destino malgrado le differenze che c'erano al suo interno. Questa idea che la classe operaia esisteva proprio, l'avevo precisissima; non so da dove mi venisse ma l'avevo. Come del resto l'aveva anche mio padre che magari me l'aveva instillata, ma senza ragionamenti, semplicemente parlando. E se ben ricordo tutti in fabbrica, anche il più scemo, avevamo quest'idea. Perfino il crumiro ce l'aveva e infatti cercava di tirarsene fuori, a modo suo, con la soluzione personale. Tra me e un muratore sentivo una differenza enorme ma non mi sarebbe mai venuto in mente di dire la classe degli edili. Erano classe operaia come noi. Poi c'era quel fatto che noi siccome lavoravamo con le macchine, leggevamo i disegni e che magari di noi si era occupato Marx, pensavamo di saperne più di loro".
Che peso dovrà avere nel museo degli operai "la coscienza di classe" appena illustrata da Elio? Pacian osserva che ha visto una mostra delle vecchie tessere della CGIL; se le ingrandissimo verrebbero fuori dei bei quadri che servirebbero a dare l'idea. L'apertura alla concretezza è bloccata da Ugo, oggi inesauribile. L'idea che la classe operaia fosse una - ha detto - c'era anche sotto il fascismo che pure aveva introdotto un sacco di divisioni. "Era una idea che per noi operai era pacifica, naturale come l'aria che respiri". Lui però ricorda che quando era entrato in Ansaldo, nel '38, c'era ancora gente vecchissima che raccontava che c'era stato un tempo che gli operai di Ansaldo si credevano gli unici e di legarsi agli altri non ne volevano sapere. Disprezzavano specialmente gli operai arrivati a Genova da fuori, marchigiani, ferraresi, bergamaschi e veneti; tant'è che non li ammettevano nelle società operaie e per tagliarli fuori parlavano in dialetto. Il partito socialista si era battuto a lungo per l'unità di tutti gli operai ma c'erano voluti anni per riconoscere che anche i foresti facevano parte della classe operaia.
Nessuno ne dubitava ma il ricordo dei tempi antichi citato da Ugo è servito a confermare che l'idea che accomuna i presenti di appartenere ad un'unica classe, avere unico destino ecc. non è poi così antica. L'argomento ha alle spalle una letteratura vasta e celebri autori che qui non è il caso di scomodare. Ugo ha una sua spiegazione - subito ribattezzata "il grande tremore" - su come possa essere avvenuto a suo tempo un così radicale cambio di opinione.
"Sei lì che vivi alla giornata. Vivi e cerchi di medicartela: la tua bolla, il socio di bolla, il capo, la multa, il sindacato, il freddo la mattina e via così; magari con qualche scioperin, qualche casino, qualche puttanata, mutua e imboscamenti vari. Poi viene un giorno o un tempo che la casa trema. Perché trema? E chi lo sa. Il fatto è che non lo senti solo tu ma anche il vicino di macchina, il capo, l'ingegnere, la direzione e quelli del cantiere lì vicino, e quelli del bar dove vai la sera perché tutti a loro modo, chi più chi meno sentono che trema. Si guardano, ci guardiamo e: belin, ma trema. E siccome in quei casi tutti si mettono a parlare come se non si vedessero da anni e tutti siamo lì a dire cosa succede o non succede, capita che vengono fuori storie vecchie che nessuno ne sapeva più niente. Altri invece ti dicono delle parole nuovissime, imparate chissà da chi, e che in fabbrica non si erano mai sentite. Insomma che in pochi giorni non si capisce più niente; o meglio si capisce benissimo: tutti vivevamo nella cronaca spicciola e poi di colpo, trac, appare la storia che sarebbe poi quando si capisce che le cose possono cambiare". Questo, conclude, è quanto è avvenuto nel '68 e che molto probabilmente sarà avvenuto anche in quei tempi là quando hanno deciso di essere una classe sola.
La recita di Ugo, in dialetto, con pause e accelerazioni da grande attore, è stata accolta da grasse risate. Ugo ha tirato in ballo il '68 perché è una cosa che gli piace e perché sta cosa del cambiamento di idee lo ha sempre appassionato. "Cambiare idea - da grandi e non da ragazzi - non è un fatto razionale, è un miracolo. Perché ognuno di noi non ha solo una idea ma ha anche gli amici di quell'idea, le abitudini di quell'idea, tutto di quell'idea. E cambiare idea significa cambiare tutto". Il '68 è stato un mucchio di persone che hanno cambiato idea, "ma non di partito o di voto, no, cambiato idea sulla vita!... L'unica volta che ho visto in 40 anni la gente che cambiava il modo di pensare".
In quei mesi c'è stata "la cosa più grande, quella che nessuno della mia età (Ugo ha più di 80 anni), ma anche più vecchio, avesse mai visto. Non per il casino - di quello dopo la guerra ne abbiamo fatto tantissimo, per non dire dell'attentato a Togliatti - ma per l'importanza. Bastava che qualcuno in riunione o in assemblea denunciasse una cosa storta di quelle che vedi tutti i giorni - e che per una vita ti han detto o hai pensato che non ci si poteva fare niente - che subito si ritrovava insieme ad altri, che - così, con naturalezza - gli dicevano hai ragione, non se ne può più. Facciamo, brighiamo...".
Alla questione dei cambiamenti indotti dal '68 solo Elio aveva fatto cenno la volta che eravamo alla Castagnola (l'ultimo stoccafisso prima dell'estate). Oggi però quasi tutti hanno da dire. Il "tremore", precisano alcuni, prima di diventare grande era stato piccolo e aveva dovuto vincere forti resistenze. Si sente la parola "burocrati" scomparsa ormai da anni. Tutti sono d'accordo nell'affermare che il confronto politico in fabbrica prima del '68 assomigliava piuttosto alle esercitazioni di compagini preoccupate di non uscire dai ranghi. "A meno che non si trattasse di uno giovane che entrava sguarnito e allora cominciavi a lavorartelo - ha detto Paolo - cambiare idea in fabbrica non era facile; anzi era quasi impossibile. In fabbrica entravi giovane, vivevi, ci diventavi vecchio: sempre a fianco di altri. Conosci tutti da sempre, ti aspetti le loro reazioni, sai le loro parole, i gesti. La stessa cosa vale nei tuoi confronti. E' come un enorme sistema di aspettative: tu dagli altri, gli altri da te. Sei in un gruppo, sotto gli occhi di tutti: cambiare idea è una cosa che può costare molto. Tu cambi ma dopo può succederti che neppure ti vedono più".
"Vi ricordate - Ugo oggi è un fiume - quella volta che eravamo al funerale di S., quel saldatore morto di canchero? Nel suo reparto era già il terzo o il quarto che se ne andava. Per dire che, almeno da noi, non era una cosa eccezionale. Lì c'era anche quello che lavorava proprio accanto a lui, uno calmo che non gli avevo mai sentito dire due parole di seguito. Beh, quella mattina, dopo il funerale, era esploso: una collera indicibile. E s'era messo a raccontare della prima volta che erano stati male tutti e due per il fumo del reparto e che all'infermeria neppure avevano chiamato il medico e che un'altra volta quello lì' che poi è morto aveva cacciato sangue dal naso, dalla bocca ma guai a parlar di mutua... E urlava, urlava proprio come un matto. Tanto che mi son detto: ma belin, dov'era lui o dove ero io quando succedevano ste cose? Mi sembrava di non averlo mai conosciuto. C'era voluto quell'urlo il giorno del funerale... Ma eravamo al camposanto non in fabbrica". Perché la fabbrica - è la conclusione di Ugo - è un luogo chiuso dove è vietato essere liberi. Al contrario degli spazi aperti o di luoghi anonimi - come nel caso sarebbe stato il camposanto. Il '68 aveva permesso a molti di "pensare in un modo nuovo", proprio perchè la fabbrica si era in parte trasformata in un luogo aperto.
Sul movimento del '68 e '69, abbiamo parlato molto. Tutti - sia pure con sfumature diverse - riconoscono la frattura col passato. Pippo ha detto che il passato sopravviveva solo per quello che i nuovi, giovani o vecchi non importa, avevano deciso di utilizzare; non come struttura, organizzazione, forma mentis ma, piuttosto, come etica. "Raccoglievamo il testimone di decenni che ci erano sconosciuti e che anche dopo sono rimasti tali: ma sentivamo che c'erano state delle idee nobili e noi ne facevamo parte. L'importante era il nuovo, quello che vivevamo allora. Lì non c'erano maestri o esperienze a cui riferirsi".
Partigiano della frattura anche Ugo, che pure è il più anziano. "La cosa che non si dice ma che è quella che allora è venuta in testa a tutti è che i tempi potevano cambiare. In quei mesi, per la prima volta, tutti ci aspettavamo che i tempi cambiassero. Forse bisognerebbe dirlo: neppure nel '45 alla fine della guerra c'era stato un sentimento del genere così forte. Allora c'erano rovine dappertutto, niente lavoro, neppure un ufficio che funzionasse, strade per aria: cosa volevi che ci aspettassimo... Al massimo di venirne fuori. Invece tra il '68 e il '69 il senso che le cose potevano cambiare è stato enorme, anche tra gente che non ci aveva mai pensato. Il bello era che era una attesa di cose che stavano proprio succedendo e non fantasie. Per esempio le assemblee dove si parlava di tutto, erano in fabbrica ma anche fuori. Ovunque ci fosse una situazione un po' così, veniva fuori una assemblea: operai, impiegati, inquilini, maestri, croce rossa; e tutti andavano dagli uni e dagli altri. E poi l'organizzazione: comitati per tutto. E poi il modo di discutere e di votare: tutti discutevano e votavano tutto. Cose che erano già il cambiamento perché il loro risultato concreto era enorme: ognuno godeva di rispetto, tutti acquistavano dignità, la paura di parlare e di pensare era finita. Belin, ditemi se non era un cambiamento della madonna. Eri vissuto per anni vicino a persone senza saperne niente o credendo di sapere tutto. E loro lo stesso; finita lì. Invece cominciava la scoperta: cose bellissime, inaudite. Uno che torna a muoversi dopo che per 40 anni ha portato il gesso. E poi quelli della mia generazione che avevano preso botte per più di 20 anni: chiusure, sciopero, botte; declassamenti, sciopero, botte; contratto, sciopero, botte... Ora invece uscire dalla fabbrica, andare in centro, in corteo e non doversi picchiare cioè prenderle, e un sacco di studenti che ti parlano, ti considerano e la gente che ti ha in simpatia. Altro che andare a passeggio; era una gioia. Si capisce che i più giovani ci prendevano gusto subito. Loro hanno pensato di poter andare avanti così ma...".
Pippo ha detto "è come se avessimo inforcato certi occhiali che ci facevano vedere cose che c'erano anche prima ma che senza quegli occhiali non si vedevano". A questo punto, a mezza voce, Carmelo - quello della stanza del partito - ha detto "che poi saievan i meximi speggetti de quelli che sun chi" (che poi sarebbero gli stessi occhiali di quelli che son qui). Era un momento di quasi silenzio e tutti intorno abbiamo sentito. E abbiamo pensato che il gruppo conviviale che siamo, le chiacchiere attorno al "museo", la nostra passione politica viene dalla cosa vissuta allora. Anche noi lì attorno al tavolo - circondati dalle tazzine da caffé e dai bicchierini per la grappa - un oggetto storico...
Abbiamo finito con alcuni racconti della propria scoperta del '68. Ha fatto ridere Raffaele che ha raccontato come nell'estate del '68 era stato avvicinato da alcuni studenti che stavano conducendo una specie di inchiesta sugli operai. Lui, curioso aveva dato la sua disponibilità, e loro gli avevano dato un foglio dove la prima domanda era se era soddisfatto di essere un operaio e la seconda se gli piaceva il suo lavoro. Ai tempi si era chiesto: che razza di domanda è, ma sono scemi, ma come si permettono. Poi però non ci aveva dormito perché aveva capito che avrebbe potuto rispondere sì o no ma che in tutti e due i casi non era soddisfatto. Alla fine glielo aveva detto, gentilmente ma in modo chiaro: "Pe piaxei figgeu, lasceme perde, che se me mettu a pensa a ste cose fassu a rivulusiun". E commenta: "magari quei gondoni, facevano quella domande proprio per farmela fare".
Questo resoconto, come già altri precedenti, è sovrabbondante. Dipende dal fatto che non "vedo" ancora il museo e temo che relazioni più succinte possano privarmi di materiali che, al momento opportuno, potrebbero essere utili.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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